
Il sintomo come opportunità di cambiamento
È normale e comprensibile che, quando siamo “messi alle strette” da un sintomo che non ci abbandona, abbiamo l’impulso di liberarcene al più presto, facendo ricorso a tutte le strade percorribili. Ci si rivolge al medico di base, allo psichiatra, allo specialista, si assumono farmaci e ci si sottopone a diversi esami e alle più svariate terapie. Tutte queste “cure” sono sicuramente utili, e anzi sono talvolta risolutive o comunque necessarie, ma in molti casi non bastano, non eliminano il problema “fino in fondo”. Esausti e scoraggiati, consigliati da qualche conoscente o inviati direttamente dal medico, si decide allora, spesso tra mille dubbi, di intraprendere un percorso psicologico. E anche qui, di fronte allo psicologo, ci si aspetta, com’è comprensibile, la soluzione immediata, potremmo dire quasi “magica”, che ci sollevi sul posto da ogni sofferenza. Qui però sorge un problema; lo psicologo, a differenza degli altri specialisti, non opera con strumenti tangibili, non prescrive esami né farmaci, spesso non porta nemmeno il camice! Come potrebbe eliminare un sintomo fisico?
Fermiamoci un attimo a pensare; che cos’è un sintomo fisico? Qual è la sua origine? Come si elimina?
Un sintomo, fisico o psichico che esso sia, è prima di tutto la manifestazione di un disagio; l’espressione di un malessere cui la persona è portatrice. Più precisamente, potremmo dire che il sintomo è, paradossalmente, la migliore risposta possibile a un conflitto che la persona riesce a esprimere in un dato momento.
Che cosa significa questo? Significa che spesso il sintomo è la spia che segnala una difficoltà del soggetto a stare dentro una situazione, oppure un conflitto, talvolta una dinamica che sarebbe meglio comprendere e, auspicabilmente, mutare in meglio. Solitamenete, invece, si cerca di “spegnere la spia” e rimuovere il problema: così facendo, però, non solo si perde l’occasione di lavorare su di sé, ma si rischia di peggiorare un equilibrio già precario.
Facciamo un esempio: immaginiamo una persona con difficoltà lavorative; un cuoco, Luca. Luca ha sempre amato stare sopra i fornelli, fino a circa un anno fa lavorava in un piccolo ma rinomato ristorante a gestione familiare, dove i ritmi di lavoro non erano troppo frenetici, le relazioni con i colleghi erano piuttosto rilassate e poco conflittuali e la pressione, pur presente, era per lui tollerabile. Questo tipo di lavoro gli permetteva di mantenere un certo equilibrio nella vita privata e coniugale, e di coltivare qualche hobby. Luca riceveva un buon stipendio, non particolarmente alto ma sufficiente a sostenere il suo tenore di vita. Comprensibilmente, Luca aveva più volte fantasticato intorno all’opportunità di trovare un’occupazione più remunerativa, ma non si era mai attivato nella ricerca né aveva, fino a quel momento, ricevuto alcuna proposta concreta. La proposta gli arriva poco tempo dopo, ed è di quelle difficilmente rifiutabili: gestire, come capo cuoco, la cucina di un importante albergo. Il considerevole aumento di stipendio e di responsabilità convincono Luca, che dopo alcuni tentennamenti accetta la proposta. Tuttavia, fin da subito, il nuovo lavoro comporta anche nuovi problemi: in particolare, ritmi molto pressanti e una richiesta di disponibilità oraria che impediscono a Luca di far fronte ai suoi doveri familiari. In più, i rapporti con i colleghi non sono buoni, specie col suo responsabile, e questo si traduce in nervosismo e dispute che si fanno via via più accese. La situazione diventa sempre meno sostenibile: a casa i problemi si accumulano mentre il tempo per affrontarli diminuisce, sul lavoro Luca è meno performante e sempre più teso. Il buonsenso suggerirebbe di trovare una diversa articolazione del lavoro, di manifestare al responsabile le proprie necessità per cercare una soluzione comune, di prendere atto che questa situazione, così come si presenta al momento, non è più sostenibile. Luca, però, “tiene troppo” a questo nuovo lavoro per metterlo anche solo parzialmente in discussione, non intende mollare di un centimetro: decide così di resistere e sforzarsi di far meglio. Le cose non migliorano per nulla e Luca comincia a soffrire d’insonnia e di stati ansiosi, al punto che, qualche mese più tardi, dopo una serie di esami e terapie infruttuose, si rivolge a uno psicologo. Al quale formula la seguente richiesta: “Mi tolga tutti i sintomi nel più breve tempo possibile, devo lavorare!”.
Questa è una situazione abbastanza ricorrente in persone che iniziano un percorso psicologico. Esse dovranno, magari con qualche frustrazione, costatare la necessità di lavorare in prima battuta su di sé e sugli “equilibri precari” di cui il sintomo è espressione, elaborando, al contempo, il lutto per l’impossibilità di annullare istantaneamente il sintomo stesso, proprio come non è possibile rimuovere sul momento le cause “di vita” che l’hanno generato.
Sarà necessario mettersi in gioco, lasciare per un attimo da parte il sintomo (che, se causa di troppa sofferenza, può in ogni caso essere trattato, parallelamente alla terapia psicologica, farmacologicamente o attraverso altre forme di cura) e inoltrarsi con l’auto dello psicologo nel reticolo, a volte molto fitto, delle dinamiche di cui il sintomo stesso è espressione e (precario) adattamento. Questo percorso, la cui durata varia di caso in caso, conduce generalmente a una maggiore consapevolezza e integrazione delle parti psichiche che, fino a quel momento, si esprimevano “solo” attraverso il sintomo e che saranno, a percorso concluso, al servizio del paziente, finalmente più libero di realizzare i propri fini.
Se presa seriamente, con costanza e motivazione, una terapia psicologica può gradatamente condurre alla risoluzione del sintomo non tanto tramite la sua soppressione “forzata”, quanto piuttosto dischiudendo le possibilità di cambiamento congelate nel sintomo stesso e rendendolo, di fatto, “inutile”.